È tempo di esami per Virginia, 23enne al quarto anno di Medicina, e l’ansia inizia a montare. Per lei, che trascorre intere giornate nella biblioteca di Padova, sessione è sinonimo di stomaco chiuso e insonnia: studiando patologia generale non ha dormito per una settimana intera, mentre cardiologia l’ha fatta smettere di mangiare. «Andavo a letto e il mio cervello continuava a sfogliare le pagine del manuale senza sosta – racconta –. Ricordo che mia madre mi fece un piatto di riso in bianco: mi è durato per tre giorni a pranzo e a cena». Nelle sue stesse condizioni, assicura, sono moltissimi colleghi in tutta Italia: «Finiamo per diventare pazzi».
In realtà – più che di pazzia – si tratta di ansia, depressione e stress. Che colpiscono gli universitari più dei loro coetanei lavoratori. Secondo una ricerca condotta dall’University College di Londra, pubblicata nel 2023 sulla rivista Lancet public health, senza iscriversi all’università i giovani di 18 e 19 anni ridurrebbero del 6% il rischio di ansia e depressione. Il motivo? Il peso economico degli studi, che spesso costringe al lavoro part-time, e la preoccupazione per i risultati. In Italia, secondo l’Istat, il 33% degli universitari soffre di ansia e il 27% di depressione. Molti rischiano il ritiro sociale e la rinuncia agli studi, con tassi di abbandono in costante aumento (nel 2022 la vetta al 7,3%, dati Mur). Alcuni arrivano a gesti estremi: dei circa 200 suicidi annuali fra gli under 24, la stragrande maggioranza riguarda studenti universitari (Istat).
Ansia da prestazione e senso di precarietà sono i primi campanelli d’allarme. E le responsabilità, secondo i diretti interessati, sarebbero da attribuire a un’università troppo fredda e lontana. «Quando ti affacci per la prima volta in un’aula – ragiona Alessia Conti, presidente del Consiglio nazionale degli studenti universitari – sei in un marasma circondato da 300 o 400 sconosciuti. Il docente non ti conosce e non saprà mai come ti chiami. E sei consapevole che il tuo percorso di studi ti farà entrare in un mondo del lavoro instabile». Tutto si complica, poi, quando i disturbi della psiche si riflettono sul libretto universitario: per i fuori corso le tasse subiscono impennate dal 20% al 40%. «È aberrante», commenta Conti.
Così, condizionati da questa spada di Damocle, gli studenti vivono gli esami come ostacoli insuperabili. «Somatizzo tutte le mie preoccupazioni – confessa Elena, 23 anni, studentessa di Ingegneria a Firenze –. Non vedendo la fine del programma, accumulo le ore davanti ai libri e mi viene l’ansia: la prima cosa che perdi sono i tuoi interessi, poi la vita sociale. Sembra un lockdown che genera solo problemi psichici».
Per uscire dal labirinto dei pensieri asfissianti, gli studenti chiedono presìdi psicologici permanenti in tutti gli atenei. «La nostra generazione vive in una condizione di precarietà persistente – spiega Camilla Piredda, coordinatrice nazionale dell’Unione degli universitari (Udu) –. Oggi non fare l’università significa essere falliti: decine di suicidi sono il sintomo evidente che cresciamo con l’idea sbagliata di cosa sia un percorso di istruzione».
Perciò la soluzione del sindacato studentesco, già presentata con un disegno di legge alla Camera, sarebbe l’istituzione di percorsi di psicoterapia gratuiti in ogni ateneo d’Italia. Non solo: gli universitari scenderanno venerdì nelle piazze di decine di città italiane per protestare contro il “taglio” (propriamente un mancato rinnovo) ai fondi per i disturbi alimentari, che colpiscono oggi un milione e mezzo di italiani (dati ministero della Salute). «È uno dei disturbi più diffusi nella nostra generazione – commenta Piredda –. Non ci si rende conto di cosa vivano i giovani nel nostro Paese».
Ma a fare le spese di un’università «uguale a se stessa da decenni», così la definisce l’Udu, sono soprattutto i più fragili. Laura (il nome è di fantasia ma il disagio è reale), 22 anni, frequenta il terzo anno di Storia e tutela dei beni artistici a Genova, e vive con disturbi dell’apprendimento, deficit dell’attenzione e iperattività. Eppure, i suoi certificati non sempre convincono i professori. «Durante un colloquio – racconta – un docente mi ha detto che i miei disturbi sono una finzione per semplificarmi il lavoro. Sono scoppiata a piangere ed ero disperata». Solo una lettera all’ufficio Inclusione ha permesso alla studentessa, che «fatica il triplo degli altri», di sostenere l’esame con gli strumenti adeguati. Non senza conseguenze sul suo futuro accademico. «A ottobre dovrei laurearmi – confessa – ma sto pensando di cambiare corso anche per motivi legati alla salute mentale. Vivo tutte le sessioni con ansia».
Andrea Ceredani
Avvenire, 17 gennaio 2024
(foto Ansa)